
DI: Pietro Romano
Una campagna elettorale ininterrotta dai primi del 2016.
Destinata a durare, se tutto andasse bene (ma i pro e i contro
quasi si equivalgono nelle valutazioni di politici e
costituzionalisti), ancora fino a marzo/aprile prossimi. Nella
quale, però, nessuno (o quasi) ci ha fatto conoscere il suo parere
su un convitato di pietra con il quale l’Italia si troverà a fare i
conti a breve: il Fiscal compact. Un silenzio probabilmente frutto
della coda di paglia di larga parte della classe dirigente, non solo
politica, del nostro Paese.
Nel luglio di cinque anni fa, il Fiscal compact fu votato in maniera
massiccia dalle Camere, salvo Lega, Italia dei Valori e un pugno di
parlamentari a titolo individuale.
Siglato da 25 dei 28 Stati membri dell’Unione europea (Regno
Unito, Repubblica Ceca e Croazia esclusi) il 30 gennaio del 2012,
in Italia è stato recepito a Montecitorio il 12 e a Palazzo Madama
il 19 luglio dello stesso anno. Presidente del Consiglio era Mario
Monti, a capo del governo tecnico insediato dopo il “pasticciaccio
dello spread” (definito da qualcuno “golpe tecnocratico”) che
aveva sfrattato Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi aprendo una
stagione politicamente oscura. A promulgarlo il 23 luglio del 2012
fu l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano,
protagonista fuori dagli schemi (e forse dal ruolo che ritaglia la
Costituzione al Quirinale) della stessa stagione.
Entrato in vigore il primo gennaio del 2014, il Fiscal compact
prevede in sostanza che: le spese dello Stato pareggino le entrate
(per sovrappiù, senza nessuna esigenza, questo vincolo è stato
inserito nella nostra Costituzione, sempre nello stesso anno e con
la stessa schiacciante maggioranza); il rapporto debito
pubblico/prodotto interno lordo raggiunga il 60 per cento con
uno scadenzario rigidissimo; la soglia di deficit non superi lo 0,5
per cento annuo. Secondo alcuni economisti, questo combinato
disposto obbligherà l’Italia a manovre da 40/50 miliardi l’anno.
Una tragedia, dopo dieci anni di crisi dalla quale l’Italia non riesce
a uscire, come dimostrano i dati su retribuzioni, risparmio,
investimenti. Una tragedia cui è destinata, senza una forte
volontà politica, ad aggiungersene un’altra: le clausole di
salvaguardia dell’Iva.
Nel 2011 la Commissione europea impose, per dare il suo via
libera ai conti pubblici italiani, l’aumento consistente per tre
bilanci annui consecutivi delle aliquote Iva nel caso lo Stato non
fosse riuscito a reperire le risorse pianificate. Il risultato è che per
due anni l’Iva ordinaria è stata aumentata dal 20 al 22 per cento.
Da allora i governi si sono limitati a “congelarla” con tagli alla
spesa o più spesso incrementi delle entrate tramite
provvedimenti estemporanei. La conseguenza, secondo i calcoli
minuziosi di “Italia Oggi”, è che oggi per eliminare le clausole di
salvaguardia occorrerebbero 50 miliardi in tre anni. Una
enormità. Tanto più che diversi miliardi già sono stati bruciati per
far slittare la scadenza di un anno. Pur di non aumentare l’Iva di
qualche punto. Una scelta che taglierebbe le gambe ai consumi, è
stata la spiegazione. Proprio per rilanciarli i governi di Matteo
Renzi e Paolo Gentiloni si sono inventati la politica dei bonus -
assegnati a pioggia, ma una pioggia a dirotto – con i quali si cerca
di alimentare i redditi per favorire gli acquisti e irrobustire la
gracile ripresa determinata dalla congiuntura economica
internazionale. Senonché in questo periodo le importazioni
stanno crescendo a un ritmo che è quattro volte il prodotto
interno lordo. Insomma, i soldi sottratti al risanamento o agli
investimenti per migliorare il sistema produttivo e incrementare
l’occupazione qualificata (meglio i secondi che i primi, in questa
fase) sono utilizzati come mancette per acquistare oggetti
importati. Importati, spesso, dal circuito parallelo e senza
controlli che dall’Asia attraverso le mafie internazionali finisce sui
banchi che occupano in permanenza i marciapiedi delle città
italiane e sono gestiti nella stragrande maggioranza da immigrati,
altrettanto spesso irregolari. Meditate, gente, sulle promesse
elettorali…